In: Risonanze

Agli inizi del terzo millennio Giovanni Paolo II proponeva di provare dolore e di chiedere perdono per il mancato discernimento e per l’acquiescenza di non pochi cristiani di fronte alla violazione di fondamentali diritti umani e alle gravi forme di ingiustizia e di emarginazione sociale.

In non pochi casi di esperienze vissute in passato, anche recente, si può vedere la condotta della Chiesa più come un ostacolo che come stimolo alla vita di fede.

Più che creare un’altra Chiesa si tratta di dare vita a comunità locali che abbiano la capacità di leggere le situazioni in cui si trovano e di attraversare,  paure, i momenti di crisi anche lunghi che provocano a dare risposte adeguate sulla base della fede in Cristo Gesù.

 

Cammino sinodale – Dono dello Spirito Santo

La proposta del cammino sinodale può essere inquadrato in questo tentativo di superare l’immagine di una Chiesa bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire, degna di essere posta accanto a una vecchia Europa nella sala di qualche museo.

Il primo passo del cammino teso a recuperare tra i battezzati il senso della comunione, della partecipazione e della missione,  stato quello di mettersi in un atteggiamento di ascolto per rintracciare qualche orma che metta alla sequela dell’azione dello Spirito Santo.

È possibile allora porsi alcune domande sulla concreta situazione in cui queste caratteristiche sono vissute nelle assemblee liturgiche per identificare una prima orma dello Spirito nel qualificarle più correttamente in consonanza con lo spirito della riforma iniziata col Vaticano II.

– Quale testimonianza di fede viene percepita da chi fosse presente in esse anche per caso?

– Come mai l’esigenza di santificare il giorno del Signore con la partecipazione all’eucaristia domenicale è meno avvertita che in passato?

– È possibile che i fedeli non siano stati educati  a viverla come un’occasione di incontro con Gesù Risorto dal cui amore siamo riuniti per rendere insieme grazie al Padre?

I sette doni dello Spirito Santo

– Come valutare la quasi totale assenza di una preghiera di ringraziamento nella vita delle famiglie anche quando si riuniscono a tavola?

– Quante volte la nostra partecipazione alle celebrazioni liturgiche si è ridotta a un formale dire insieme certe parole, cantare certi canti e compiere certi gesti?

– Quale formazione a una partecipazione piena, consapevole, comunitaria e devota, sia interiormente che esteriormente, è offerta ai candidati al sacerdozio e ai ministeri laicali?

– I presbiteri e i vescovi si preoccupano solo di prendersi cura dell’omelia o anche di tutte le fasi della celebrazione?

– Chi dalle nostre concrete celebrazioni esce con la consapevolezza di aver ricevuto il mandato di testimoniare, con parole e opere, le conseguenze dell’incontro vissuto con Gesù?

*Fino a che punto da presbiteri e da fedeli laici possiamo dire che viviamo le celebrazioni liturgiche come sorgente e culmine della nostra vita di cristiani?

Anche se non arriveranno a comparire nei documenti finali del Sinodo le nostre risposte potrebbero servire a dare vitalità, fedeltà e senso di responsabilità al nostro modo di educarci a costruire un’umanità che divinizza che è il compito proprio dell’azione liturgica, anche sacramentale, della Chiesa?

Dalla Rivista Risonanze 1-2022 p. 11

P. Valter Palombi fsmi

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